Il settore della moda è tra i più minati dalla crisi attuale; ciononostante ha rivoluzionato in pochi mesi il proprio impianto strategico, mettendo al primo posto “la svolta sostenibile”.
Una scelta sembra aver messo tutti d’accordo, big e top manager: la sostenibilità non può più essere un’idea, ma una necessità, l’obiettivo prioritario per i prossimi mesi.
Questo cambiamento ha coinvolto tutta la filiera, dalla produzione alla distribuzione, fino ad arrivare alle condizioni di lavoro, alla vendita.
Il concetto di “sensibilità ambientale” applicato a questo mondo fatto di lustrini e sirene luccicanti porta con sé una serie di richieste, tra le più rilevanti, oltre al minore impatto ambientale, c’è la riduzione degli sprechi.
Ricordiamo che la moda rappresenta la seconda industria più inquinante al mondo dopo il comparto del trasporto aereo; un settore a cui va attribuito il 20% dello spreco globale di acqua e il 10% delle emissioni di anidride carbonica, nonché la produzione di più gas serra rispetto a tutti gli spostamenti navali e aerei del mondo. Allo stesso tempo le coltivazioni di cotone sono responsabili per il 24% dell’uso di insetticidi e per l’11% dell’uso di pesticidi facendo del settore tessile il più inquinante dopo quello Oil&Gas.
Ma c’è di più, secondo le Nazioni Unite, ben l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e solo l’1% viene riciclato, dato che diventa ancora più significativo se si considera che, rispetto al 2000, oggi il consumatore medio acquista il 60% di abiti in più.
Non solo sostenibilità: la necessità di un modello etico
Parlare di nuovi processi per questo settore non può prescindere dall’affrontare temi altrettanto spinosi, come le condizioni di lavoro delle fabbriche produttive, disumane in alcune zone del mondo.
C’è bisogno di equità quindi, oltre che di sostenibilità; una matassa ingarbugliata che i brand di tutto il mondo hanno deciso di dipanare mettendo in discussione quanto fatto finora e ponendo rimedio agli scandali dell’ultimo ventennio.
A tal proposito, risale all’inizio degli anni ’90 la prima denuncia di sfruttamento dei lavoratori da parte di alcuni importanti marchi di moda: nel 1992 fu la volta di Levi’s, accusata di non pagare in maniera adeguata i propri dipendenti; nel 1996 poi toccò a Nike che, con tanto di campagna contro il lavoro minorile, si serviva proprio di minori per realizzare alcuni dei suoi prodotti – è celebre la strategia di rilancio del 2002 “mai più sfruttare i bambini”-; nel 1998 finì nell’occhio del ciclone anche Adidas, accusata di sottoporre i prigionieri politici in Cina ai lavori forzati in cambio di un’esigua somma di denaro. Questi sono solo alcuni degli avvenimenti, la lista è ancora lunga se si considerano gli scandali che sono seguiti alla nascita del fenomeno della fast fashion e i passi da fare in questa direzione.
Attualmente nel mondo ci sono circa 150 milioni i minori che lavorano, impiegati in mansioni più o meno faticose; bambini a cui è stato negato il diritto all’infanzia e precluso, quindi, quello ad un futuro. Secondo il rapporto ILO – Organizzazione Internazionale del Lavoro – sullo sfruttamento minorile, sono 74 milioni i bambini impegnati in lavori ad alto rischio, a contatto con sostanze, macchinari ed attrezzi pericolosi; ed è proprio l’industria tessile e dei capi di vestiario il settore dove viene sfruttato maggiormente il lavoro minorile, soprattutto nei paesi sottosviluppati.
Iniziative per ridurre l’impatto ambientale: le azioni sostenibili dei brand
Per ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda, negli anni sono intervenute molte associazioni ambientaliste. Greenpeace, ad esempio, nel 2011 ha promosso l’iniziativa “Panni Sporchi” quando in Cina, nelle acque reflue delle fabbriche, si scoprì la presenza di alcune sostanze tossiche; nocive per l’ambiente, il personale coinvolto e le comunità circostanti. Non è un problema circoscritto alla filiera, quindi: la scelta di utilizzare materie sostenibili è diventata una responsabilità comune; per questa ragione l’attenzione all’ambiente da parte dei marchi comincia a diventare un requisito fondamentale per orientare e soddisfare le scelte dei consumatori.
Sono molti i brand che hanno indirizzato la produzione verso una strada Eco-friendly, creando intere collezioni a impatto zero.
Nel settore calzaturiero c’è chi si è contraddistinto notevolmente in tal senso, mostrando un reale e tangibile impegno verso queste tematiche; vediamone alcuni esempi.
Adidas for the oceans
Adidas, marchio tedesco di sneakers che produce anche abbigliamento e articoli sportivi, oltre a presentare da tempo diverse collezioni di prodotti ecosostenibili, dal 2015 collabora con Parley for the oceans, associazione no-profit che promuove il riciclo e la raccolta dei rifiuti negli oceani.
L’intera linea Adidas x Parley è formata da articoli composti dal 75% di plastica riciclata raccolta prima di finire in mare e prodotti con tecnologie che limitano lo spreco di acqua e di energia. Si tratta di prodotti riciclabili al 100% a differenza di tanti altri presenti sul mercato.
Adidas ha inoltre dichiarato il proprio obiettivo: utilizzare elementi esclusivamente ecologici entro il 2024.
Nike: obiettivo zero plastica
Dal 2008 Nike progetta unità Air composte al 50% da scarti di produzioni riciclati e realizzate con energia rinnovabile al 100%.
La factory inoltre afferma di ri-utilizzare il 90% dei materiali per realizzare i nuovi sistemi di ammortizzamento, e infine di riciclare tutta l’acqua utilizzata per la colorazione delle suole.
Il colosso statunitense ha anche annunciato il prossimo passo in campo green: utilizzare cotone sostenibile al 100% e certificato BCI (Better Cotton Initiative)
Il progetto MOVE TO ZERO mira alla sensibilizzazione del mondo dello sport, impegnandosi a eliminare la plastica monouso dagli impianti sportivi e a sostituire la plastica nella fabbricazione di prodotti che usano poliestere.
New Balance verso l’impatto zero
Parlando di sneakers e di green thinking non possiamo fare a meno di citare New Balance.
Ogni sneakers viene costruita partendo dal lavoro di un’intera squadra dedicata alla scelta di materiali meno aggressivi possibile per l’ambiente.
Il risultato è una linea di scarpe formate da materiali ecologici come poliestere riciclato, pelle scamosciata senza cromo, ed infine i dettagli realizzati con alga BLOOM e schiuma EVA; inoltre tutte le scarpe New Balance sono prive di PVC.
L’obiettivo futuro di NB è quello di realizzare prodotti completamente riciclabili che non producano alcun tipo di rifiuto, e quindi a impatto zero.
Qualità e sostenibilità: i valori di Veja
Veja è un marchio di sole scarpe, nato nel 2004 a Parigi, che ha saputo imporsi sul mercato grazie a due punti forti: qualità e sostenibilità.
Il vanto della scarpa con la V è quello di essere la prima sneakers dalla produzione tracciabile, con materiali ecologici come cotone e gomma selvatica, che provengono rispettivamente dal Brasile e dall’Amazzonia.
Oltre ai materiali naturali, è importante parlare dei vari materiali da riciclo che l’azienda francese utilizza. Nel 2015 ha brevettato il B-Mesh, formato al 100% da bottiglie di plastica riciclata, e recentemente ha trovato uno di questi materiali proprio in Italia, il C.W.L. ( Corn Waste Laminated), un tessuto prodotto con gli scarti della lavorazione del mais e della plastica.
Riforestazione e progetti di sensibilizzazione per Timberland
Timberland viene da sempre considerato un colosso nel mondo delle calzature, famoso per un consistente impegno ambientale. Oltre a progetti di sensibilizzazione, l’azienda si è impegnata anche nella promozione di campagne di riforestazione.
Timberland ha garantito che utilizzerà almeno un materiale ecologico per produrre ogni modello, è il caso dell’intera linea di scarpe da uomo realizzata riciclando bottiglie di plastica o la Delphville, o della scarpa da donna realizzata con pelle certificata del Leather Working Group. Sul sito di Timberland è possibile trovare una lunga lista di obiettivi ambientali che l’azienda si è prefissata, e ciò non può essere altro che la testimonianza del costante contributo che questo brand prova a dare al nostro pianeta.
A quasi dieci anni dal termine imposto dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, quali saranno i tessuti, i materiali e gli accessori che popoleranno il guardaroba “del futuro”?
Probabilmente aumenteranno capi in affitto e in condivisione; grazie a fenomeni come sharing economy troveranno posto accanto a borse, scarpe, abiti pre-loved e vintage, il cui ciclo di vita si allungherà popolando più di un armadio nel corso delle stagioni.
Saranno sempre più presenti articoli upcycled ed evoluti, disegnati già in fase di progettazione con accortezze volte al riciclo.
It’s time for change